La difesa del valore della persona e dei diritti dell’individuo sono uno dei tanti elementi che hanno scombussolato l’orizzonte di riferimento della sinistra negli ultimi venti anni. Non c’è bisogno di tornare al saggio di Norberto Bobbio su Destra e Sinistra per ricordare che, storicamente, la prima è stata caratterizzata dalla difesa del valore della libertà, mentre la seconda ha sempre portato un’attenzione maggiore al raggiungimento e al mantenimento dell’uguaglianza. L’attenzione, crescente, nella società di uno spirito individualista ha alterato i dati della vicenda: spirito individualista che può non essere inteso soltanto in chiave negativa, ma che partecipa dell’affermazione, almeno sulla carta, dei diritti fondamentali, alla quale dovrebbero contribuire le corti costituzionali, l’Unione europea attraverso la Carta di Nizza, la Corte europea dei diritti umani e il legislatore nazionale – quindi la politica – che volesse saggiamente accodarsi a questa trasformazione profonda dei principi di base della convivenza nei paesi “occidentali”.
Questo spostamento verso l’individuo è frutto della profonda penetrazione – e qui il bunga bunga non c’entra nulla – di valori tipicamente liberali nell’universo di riferimento di una sinistra che per ironia della storia si è trovata di fronte la destra più illiberale del XX secolo, totalitarismi esclusi: di fronte alla negazione della libertà di stampa e al tentativo di un ritorno allo Stato etico, la sinistra ha fatto propria l’idea secondo la quale il benessere della società si raggiunge attraverso il raggiungemento degli obiettivi di ciascuno. Trattandosi però di una sinistra con un’origine diversa dal liberalismo puro di inizio ‘900 (non credo che Benedetto Croce e Antonio Gramsci andassero spesso a cena insieme), la sinistra ha condito questa esigenza di “libertà”, per dirla con Bobbio, con degli elementi di solidarietà e di attenzione per gli altri. Fu così che, dieci anni fa, gli eredi del PCI scelsero come motto del primo congresso dei DS a Torino il celebre “I care”: troppo americano, troppo kennedyano, troppo obamiano – anche se quell’anno Obama non riusciva neanche a prevalere alle primarie per il seggio dell’Illinois – si disse in quel momento di passaggio che preannunciava il pauroso crack alle elezioni dell’anno successivo. In realtà, si voleva riprendere il motto di un prete che nell’Appennino tosco-emiliano del dopoguerra predicava uno scuola aperta a tutti e quindi simboleggiava quest’attenzione al prossimo. Non a caso, il segretario che fu eletto nel lontano 2000 alla guida del partito tornò sul luogo del delitto, cioè a Barbiana, per lanciare una sua nuova candidatura alla segreteria, anche se nel frattempo il partito era cambiato, perdendo una s e guadagnando una p.
Ed è ancora la persona a tornare prepotentemente nel dibattito politico del centrosinistra in questi momenti confusi: il messia di Terlizzi, che la parola libertà l’ha messa addirittura nel simbolo e nel nome del suo partito, ha scelto infatti come canzone finale dei suoi comizi “La cura”, una canzone di Battiato che contiene una vera e propria dichiarazione d’amore – oggetto di un divertente arrangiamento nella pubblicità della trasmissione Tetris su La7 qualche mese fa. Dieci anni dopo lo slogan di Veltroni quindi, l’idea di “curarsi di qualcuno” torna centrale nella comunicazione politica dei leader di sinistra, per contrastere il me-ne-frego che in quindici anni di berlusconismo ha dato la stura a tutti i peggiori comportamenti, dall’evasione fiscale al parcheggio in doppia fila. Quello che dieci anni fa rappresentava l’introduzione e la conferma progressiva di nuovi valori nel vocabolario della sinistra, trova oggi conferma nel bisogno di pulizia che Vendola invoca nei colpi di coda del basso impero di Arcore. E’ però da notare un cambiamento di registro, che con Vendola diventa più aulico, più etereo, più mistico, più Battiato insomma: un bisogno di parlare al cuore e ai sentimenti della base, troppo spesso delusa e costretta ad assistere a dibattiti verticistici su questioni prive di ogni rilevanza.
Questa questione delle canzoni può sembrare marginale, ma in realtà io credo che sia simbolicamente molto importante. In primo luogo, credo che l’abbandono della Canzone popolare di Fossati, che Bersani ha ripreso in alcuni comizi recenti, sia stato uno dei più gravi errori nella comunicazione politica: in primo luogo, perché era una canzone collegata a una vittoria; in secondo luogo, perché era una canzone capace di emozionare facendo leva su sentimenti collettivi. Il valore simbolico delle canzoni è emerso con forza in quella che può sembrare una boutade, ma in realtà è la rappresentazione della degenerazione del quadro di valori fondamentali di tutto il Paese: che Paese è una paese in cui si discute ancora di Bella Ciao? Che paese è un paese in cui l’imbecillità bipartisan porta a pensare che questa canzone simbolo della Resistenza debba essere accompagnata da un canto del Ventennio, come hanno provato a fare gli organizzatori di Sanremo? Dobbiamo ringraziare la CGIL, che la intona alla fine delle sue manifestazioni, e dovremmo sperare che venga insegnata ai bambini nelle scuole. Non mi risulta che nessuno si sia mai sognato di ricoprire la targa dedicata ai partigiani sul muro della scuola materna di fronte alle finestre di casa mia a Parigi.
Sempre in tema di canzoni, alla fine del bel discorso di Bersani all’assemblea dei circoli del PD di oggi, è partito il brano di Neffa “Cambierà”. Oltre all’ottimismo e alla carica che vengono dal testo e dal motivetto di questa canzone, forse questa scelta voleva indicare la possibilità di un cambiamento radicale del quadro politico, a partire del discorso di Fini a Perugia. “Già si vedono i lampi all’orizzonte”, dice a un certo punto Neffa: perché tutto cambi davvero, poi, sarà necessario l’impegno di tutti coloro che vogliono costruire una vera alternativa in un Paese più giusto.