Post del 17 dicembre 2010, dopo le polemiche seguite a questi avvenimenti
Questa pioggia di dichiarazioni sulle decisioni del Tribunale di Roma relative agli scontri tra manifestanti e polizia di martedì scorso è al limite del paradosso e rivelatrice di due problemi che pesano sul funzionamento dell’intero ordinamento democratico italiano, invero piuttosto malmesso.
In primo luogo, al di là dei toni paternalistici usati per condannare le “frange violente” che avrebbero rovinato una pacifica manifestazione, è alquanto inquietante constatare la scarsa attenzione a dei principi di base della teoria costituzionalistica, che è fondata sulla protezione delle libertà personali: la repressione di atteggiamenti violenti nel corso di una manifestazione, se atteggiamenti violenti ci sono stati, non è un’operazione che può essere fatta un tanto al chilo, pescando nel mucchio una quarantina di malcapitati e riservando loro un trattamento esemplare nei confronti degli altri, per esempio trattenendoli “per un po’” nella cella di un commissariato. La Costituzione ci dice che non funziona proprio così, per una serie di motivi.
L’articolo 17, in primo luogo, prevede la libertà di manifestare, che può essere limitata solo per motivi di incolumità o ordine pubblico: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.” . Nessuna libertà è assoluta, e chi lo dice in questo contesto è in malafede, perché è una cosa che sanno anche i bambini di due anni – e che i manifestanti in piazza martedì scorso non hanno assolutamente ignorato.
Ma ben prima della libertà di riunirsi in luogo pubblico, la Costituzione pone come prioritaria la libertà personale, tutelata dall’articolo 13, che apre il Titolo I dedicato ai Rapporti civili:
La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Quindi, bisogna ben essere coscienti che quando si invoca una repressione più severa per i soggetti sui quali viene addossata la responsabilità di reati commessi nel corso di una manifestazione, i paletti sono ben fissati e non si può mettere in discussione la libertà individuale di ciascuno esclusivamente per fini propagandistici.
Come se non bastasse, anche a volerli tenere in carcere fino a che non si saranno redenti, i manifestanti non potranno essere condannati che nel corso di un processo nel quale saranno chiamati a rispondere dei fatti commessi – le decisioni di ieri non si sono pronunciate su questo punto, come vedremo: l’articolo 27 contiene infatti i due fondamentali principi della responsabilità penale personale e della presunzione di innocenza. In altre parole, chiunque venga sottoposto a un processo non può essere condannato che per fatti che ha egli stesso commesso e non è considerato colpevole finché tale responsabilità è accertata. Episodi come quelli che fanno l’oggetto in questi giorni di polemica contravvengono chiaramente questi due principi: le persone arrestate sono considerate responsabili per l’azione anche di altri, di una moltitudine, e sono già state condannate nei telegiornali della sera che hanno mostrato le immagini delle camionette in fiamme.
Ma non possiamo certo pretendere che questi basilari principi siano presi in considerazione dai politici che sono intervenuti in questi giorni: non se ne preoccupa dall’alto dei suoi studi in ingegneria ambientale il sindaco Alemanno, sui cui trascorsi di picchiatore sorvoliamo per carità di patria; non se ne è occupato durante i suoi studi di scienze della produzione animale alla facoltà di medicina veterinaria Luca Zaia, governatore di una Regione a centinaia di chilometri dalla Capitale che ha sentito il bisogno di farci sapere la sua; non hanno impedito all’economista Brunetta di definire “feccia” i manifestanti che hanno “devastato Roma”; dovrebbe invece saperne qualcosa il ministro degli Interni, che oltre ad essere laureato in giurisprudenza, sulla nostra Costituzione ha giurato. Ma anche il dibattito di stamattina in Senato ha dimostrato con quale noncuranza si interviene su qualsiasi argomento e con qualsiasi tipo di argomento, in questioni estremamente delicate che, oltre a mettere in gioco la libertà personale di singoli individui, sono di stretta competenza della magistratura. Quest’ultima non ha agito in modo discrezionale, non ha il potere discrezionale di decidere quale messaggio far passare quando è chiamata a giudicare di fatti di rilevanza penale, non ha deciso “a occhio” cosa fare di quei ragazzi che sono passati davanti alle diverse sezioni del Tribunale ieri. La magistratura applica la legge (lo prevede un altro articolo della Costituzione, il 101: “i giudici sono soggetti solo alla legge”) e prende le sue decisioni nel rispetto di norme estremamente tecniche, sulle quali non è normale che chiunque si senta in diritto di aprire bocca e dargli fiato. Altra cosa è il dibattito politico su quello che è successo: in questo caso, continueranno a scontrarsi due schieramenti, uno secondo il quale si tratta di guerriglia di infiltrati dei centri sociali e l’altro che metterà l’accento sulla violenza della polizia, tra i quali non si raggiungerà mai un accordo. Ma su come quando e perché procedere contro coloro i quali sono considerati responsabili delle lesioni, della resistenza a pubblico ufficiale, delle rapine e dei danneggiamenti è inconcepibile che si discuta in Parlamento. A ognuno il suo mestiere.
I magistrati del Tribunale di Roma hanno infatti applicato il titolo del codice di procedura penale (cpp) relativo all’arresto in flagranza e fermo. La possibilità di procedere all’arresto per fatti come quelli di Piazza del Popolo è prevista all’articolo 381, che fissa una soglia di pena massima di almeno tre anni: tutti i reati previsti nel nostro ordinamento, infatti, hanno un limite minimo e un limite massimo di pena che è fissato dalla legge. Per la resistenza a pubblico ufficiale, che è il reato contestato alla maggior parte dei manifestanti, si va da un minimo di sei mesi a un massimo di cinque anni (art. 337 del codice penale). L’articolo 390 cpp prevede che entro quarantotto ore dall’arresto o dal fermo il pubblico ministero (=PM, l’accusa nel processo penale, che rappresenta lo Stato), qualora non debba ordinare la immediata liberazione dell’arrestato o del fermato per delle ipotesi previste in altri articoli (per esempio, scambio di persona), richiede la convalida al giudice per le indagini preliminari competente in relazione al luogo dove l’arresto o il fermo è stato eseguito. Quest’articolo costituisce una diretta applicazione dell’articolo 13 della Costituzione. Nel nostro caso, il PM ha inizialmente chiesto la convalida del fermo: a tal fine, l’articolo 391 cpp prevede le norme di svolgimento dell’udienza di convalida, che si deve svolgere al più presto e comunque entro le quarantotto ore successive. Il codice prevede però un procedimento speciale, il giudizio direttissimo (detto processo per direttissima o la direttissima), che si svolge nei casi previsti all’articolo 499: “Quando una persona è stata arrestata in flagranza di un reato, il pubblico ministero, se ritiene di dover procedere, può presentare direttamente l’imputato in stato di arresto davanti al giudice del dibattimento, per la convalida e il contestuale giudizio, entro quarantotto ore dall’arresto”. In questo caso, si svolgono contestualmente due operazioni che sono solitamente disgiunte: da un lato il giudice si pronuncia sull’arresto, stabilendo se la limitazione della libertà personale è intervenuta nel rispetto delle regole poste dalla legge. Nel nostro caso, il giudice ha stabilito che gli arresti erano intervenuti legalmente, e questo è un primo punto a sfavore degli arrestati e affievolisce il presunto favore dimostrato dai giudici nei loro confronti. Ma non è tutto. Anche se nelle dichiarazioni dei politici sembra che ai manifestanti sia stato fatto un buffetto sulla guancia e siano stati rimandati a piangere da mamma, per alcuni di loro è stata fissata l’udienza per giudicare nel merito della loro responsabilità tra una settimana, un bel regalo di Natale. Per gli altri, il giudizio interverrà a metà febbraio.
Come si sa, i processi italiani durano molto, troppo. Anche quelli per direttissima possono svolgersi su un arco temporale più ampio, nei casi in cui sia necessario procedere ad ulteriori approfondimenti, come è stato scritto dal Tribunale di Roma nell’ordinanza di remissione in libertà. Ed è proprio qui il problema: il punto non è, come dicono alcuni, che “nessuno pagherà per quello che è successo”, perché i processi nel merito non sono stati ancora decisi e solo una visione un po’ lassista della magistratura può portare a contestare il contenuto di sentenze non ancora scritte. Il problema è che non si è abbastanza duri per far tornare a casa questi ragazzi, (forse) colpevoli di reati che vengono guardati con grande scandalo dai professionisti della repressione, ma che meritano secondo le leggi del nostro Stato un trattamento mediamente duro, essendo considerato meno gravi di stupri, omicidi, attentati. Per Alemanno, Maroni, Cicchitto, se gli arrestati avessero fatto una settimanella di carcere, magari tornando a casa solo per la vigilia di Natale, si sarebbe dato un segnale più positivo rispetto a come ci si deve comportare quando si scende in piazza per manifestare. Peccato che la decisione di applicare una misura coercitiva sia inquadrata dall’articolo 391 cpp che, rinviando agli articoli 273 e 274, richiede, oltre ai gravi indizi di colpevolezza, di essere in presenza di un pericolo di fuga, del rischio di inquinamento delle prove o il pericolo di reiterazione del reato. La valutazione appartiene quindi ai giudici, che possono imporre degli obblighi agli arrestati, come hanno fatto in questo caso con l’obbligo di firma.
Come emerge chiaramente, la vicenda è estremamente complessa e richiederebbe molta più cautela di quella che è stata usata in questi giorni. Le anime belle che condannano la violenza di piazza di martedì scorso dimenticano che quella della violenza della polizia e di arresti simbolici sono una vecchia storia, che umilia i principi di uno Stato democratico. Uno dei mali dell’Italia di questi ultimi quindici anni è la polemica su tutto e per tutto, l’assoluta mancanza di rispetto dei diversi poteri dello Stato, la strumentalizzazione di vicende giudiziarie per raccogliere consenso. Tutto ciò è ancora più triste quando sono in gioco libertà fondamentali e la rabbia di una generazione privata di futuro.