
La più grande sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale
Post del 14 aprile 2012
Per una serie di coincidenze, la realtà storica e le uscite cinematografiche di questi giorni permettono di riflettere sull’Italia, sui suoi meccanismi più profondi e sulle cause che hanno portato a ciò che è, oggi, questo Paese. L’uscita, a poche settimane di distanza, di “Romanzo di una strage” e di “Diaz. Don’t clean up this blood”, permette di mettere in parallelo due avvenimenti che appaiono lontani (la strage di piazza Fontana del 1969 e il G8 di Genova del 2001), ma i cui tratti comuni sono impressionanti. In tutti e due i casi, uno Stato colpevole di fatti inimmaginabili, una parte politica, la “sinistra radicale”, messa all’indice e marginalizzata. La sentenza di oggi sull’attentato di piazza della Loggia a Brescia (otto morti durante una manifestazione sindacale, nessun colpevole) è un invito a Marco Tullio Giordana a realizzare un altro film, su un avvenimento che si iscrive nell’evoluzione storica della stagione iniziata alla Banca nazionale dell’agricoltura e proseguita fino all’assassinio di Aldo Moro e alla bomba alla stazione di Bologna e che vede (vedrebbe?) protagonisti gruppi di estrema destra, settori deviati dello Stato e quant’altro. E un altro film potrebbe essere realizzato su Vittorio Arrigoni, militante per i diritti del popolo palestinese di cui domani ricorre il primo anniversario dell’uccisione: una persona che ha sempre operato sul campo, nella volontà di “restare umani” davanti alle condizioni di vita della gente di Gaza, che forse era il suo modo per dire che “un altro mondo è possibile”.
Sembra esserci quasi un paradosso, nel mettere in parallelo tutti questi avvenimenti: per i fatti più lontani rispetto ai nostri giorni sembra impossibile stabilire una verità storica, mentre per gli avvenimenti a noi più vicini questa sembra molto più evidente. Al di là dello svolgimento dei processi, che non sempre sono in grado di restituire l’esatta descrizione dei fatti, le stragi degli anni ’70 sembrano destinate a rimanere senza colpevoli, ma pare soprattutto impossibile delineare un quadro complessivo, per capire quali forze si muovessero in quel periodo nel Paese, quali rapporti di forza fossero in gioco, chi ne sia uscito vincitore. Il film di Daniele Vicari, invece, dimostra che a soli dieci anni di distanza la storia si è già pronunciata sui vincitori e i vinti dei fatti del G8 di Genova. Non tanto dal punto di vista processuale, perché alla fine il film ci ricorda che tutto finirà in prescrizione, a causa in particolare dell’assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento nonostante l’adesione alla convenzione ONU del 1988. Ma da un punto di vista storico e politico, questa vicenda porta a dire che ci sono dei settori dello Stato, fino ai suoi massimi vertici, che hanno sbagliato, si devono vergognare e avrebbero dovuto subire un ostracismo assoluto da parte degli elementi sani di questo apparato. Così non è stato, come ci ricorda la promozione dell’allora capo della Polizia nel gabinetto del ministro degli Interni del governo di centrosinistra, Giuliano Amato, e poi ai vertici dei servizi segreti.
Ma, nonostante il film sia stato criticato da Vittorio Agnoletto per non aver sufficientemente insistito sulle motivazioni che spingevano un movimento così imponente a manifestare in occasione di quel vertice internazionale, motivazioni che sarebbero state la ragione stessa di una così violenta reazione da parte dello Stato italiano – perché no, con l’assenso di altri leader democratici mondiali, “Diaz” è l’occasione per riflettere di come molti elementi centrali nell’analisi della crisi in corso dal 2007 fossero già in campo e che, già allora, ci si era accorti della necessità di mettere un freno al neo-liberismo che stava facendo a pezzi il nostro pianeta. Fa una certa impressione sentire spezzoni di un telegiornale in cui Bush, allora presidente degli Stati Uniti, annuncia una rapida uscita dalla crisi: non era ancora la crisi dei sub-prime, ma il fatto che da allora non si sia mai smesso di parlare di crisi fa pensare che la situazione che ora stiamo vivendo sia destinata a essere la norma molto più di quanto noi non pensiamo. Così come fa impressione rivedere Berlusconi, ormai dimenticato grazie alla sobrietà del governo Monti, con molti capelli di meno e con piglio sicuro nell’annunciare alla stampa l’esito dell’assalto alla Diaz.
Un film come questa fa emergere la voglia di dire basta a ogni compromesso, a non voler accettare nessuna via di mezzo, a far vivere uno spirito resistente per cui chi ha sbagliato paga senza esclusioni di colpi, ma, soprattutto, chi ha subito – i manifestanti picchiati, ma anche tutti coloro che credono che il mondo debba andare diversamente e sono sempre messi a tacere- prende il potere e impone il suo punto di vista. Fa venire voglia di urlare che ci sono stati idoli della sinistra che si sono opposti alla commissione d’inchiesta, che le connivenze sono trasversali e che molto più delle ruberie di Belsito e Rosi Mauro questi avvenimenti avrebbero dovuto sollevare un’onda d’indignazione che purtroppo non c’è stata.
Non capitava da anni, alla fine di un film, di vedere una sala così attonita. Sconvolta per le scene di vera violenza e di pesanti umiliazioni che caratterizzano il film. Ma anche dal pensiero che tutto questo è accaduto davvero, nel nostro Paese, nell’anno di grazia 2001.