Cosa può fare, oggi, un laureato in giurisprudenza? Si può imbarcare nella pratica da avvocato, lunga ed estenuante – se il governo Monti l’ha giustamente ridotta da due anni a 18 mesi, non ha avuto il coraggio di permettere ai laureandi di iniziarla negli ultimi mesi di università. Può provare i concorsi pubblici, che sono arrivati ad un numero di iscritti talmente alto da esser diventati altamente aleatori – in Banca d’Italia, per 30 posti, si sono presentati in circa 8.000, più o meno altrettanti si contenderanno tra meno di un mese l’accesso alla carriera prefettizia. Oppure, può sommare i due percorsi ad ostacoli e tentare la strada della magistratura: dal 2007, per accedere a questo concorso è necessario essere già in possesso di un altro titolo (avvocato, dipendente pubblico, dottorato, scuola di specializzazione delle professioni legali). Quest’ultima strada è la più perigliosa: per iniziare a lavorare, coloro che hanno superato il concorso tre anni fa hanno dovuto aspettare più di un anno per mancanza di fondi. Quest’anno, non si sa neanche se il concorso sarà bandito, per lo stesso problema. E la troika c’entra poco.
Dalle parti del ministero della giustizia hanno sentito parlare di questa situazione e, su iniziativa della ministra Cancellieri, è stato inserito nel Decreto Fare (p.59) un articolo, il numero 73, per agevolare l’ingresso dei laureati nelle carriere giudiziarie. E’ davvero così?
In pratica, i laureati in giurisprudenza – e neanche i più brillanti, perché si può essere ammessi a partire da un voto di laurea di 102/110, possono fare domanda per assistere all’attività dei tribunali, ordinari e amministrativi, e accedere, per esempio, ai fascicoli e alle camere di consiglio. Un magistrato incaricato dovrà prendere in carico uno o due laureati e giudarli in questo percorso, dando loro delle cose da fare e presentando una valutazione alla fine. Molto bene. Peccato che il testo preveda che il periodo di formazione non dia luogo ad alcun compenso, e che, nel caso, i singoli uffici giudiziari devono concludere delle convenzioni per finanziare delle borse di studio. Siamo alle solite: si crea un bel castello, ci si rende conto che i soldi non ci sono, si lasciano i singoli (laureati, ma anche capi degli uffici) sbrigarsela da soli. Mai una volta, in questo benedetto paese, che una cosa venga pensata dall’inizio alla fine. Senza andare fino all’annosa questione “chi ci mette i soldi? forse chi ha interesse a attirarsi i favori dei capi degli uffici giudiziari?” lo scoramento consiste proprio nella constatare che la retribuzione, per un giovane che svolge un’attività lavorativa, è una variabile irrilevante, che può esserci come non esserci.
Si dirà: ma in questo caso, non si tratta di vero lavoro, perché uno stagista non potrà mai, per esempio, fare una requisitoria al posto del PM o redigere una sentenza. Ammettiamo che sia vero e che qualche giudice un po’ pigro non ne approfitti per sbarazzarsi dei casi più noiosi. Questa lettura sembra confortata dal fatto che gli stagisti negli uffici giudiziari possono, contemporaneamente, fare la pratica forense o essere iscritti in un dottorato: il tirocinio non è concepito come un’attività lavorativa a tempo pieno. Però qui subentra un altro elemento previsto dal decreto fare: aver effettuato il tirocinio presso un ufficio giudiziario sarà equivalente a un anno di pratica forense o notarile o in una scuola di specializzazione e darà titolo per accedere al concorso in magistratura, lo stesso per cui qualcun altro si sarà smazzato un anno e mezzo di pratica o tre anni di dottorato. Per questo motivo, è possibile suppore che questi tirocini saranno molto ambiti.
Ci sono quindi almeno due cose che possono essere modificate di questo dispositivo. Ed è un appello al Presidente Letta, alla ministra Cancellieri, ai presidenti della Commissione Giustizia di Camera (Donatella Ferranti) e Senato (Felice Casson) e ai presidenti delle Commissioni Cultura-istruzione di Camera (Giancarlo Galan) e Senato (Andrea Marcucci):
1. introdurre un obbligo di compenso per coloro che effettueranno i tirocini presso gli uffici giudiziari;
2. permettere ai laureandi in giurisprudenza, a partire dal quarto anno di studi, di essere ammessi al programma di tirocini.
Altrimenti, ancora una volta, questo meccanismo non andrà nel senso richiesto dalla gravità della situazione dei neolaureati in giurisprudenza. Si aggiunge un altro periodo formativo, non retribuito, che potrà sicuramente essere utile a coloro che vogliono superare il concorso, ma che non permette loro di guadagnare qualcosa di fondamentale: il tempo. Ciò che chiediamo, in questo mondo che corre, è poter fare presto. Senza presunzione, ma non vediamo alcun interesse ad aspettare un anno, due anni dopo la laurea per poter “fare” veramente qualcosa. Che senso ha “formare” plotoni di giovani, per poi mandarli in massa ai concorsi con la maglietta “ne resterà solo uno”?
C’è bisogno di un salto di prospettiva: prendete i migliori, i più motivati, i meno raccomandati. Ma prendeteli subito, senza farli aspettare anni, altrimenti si creeranno ancora file di persone che chiederanno di lavorare gratis. Abbiate il coraggio di fare davvero qualcosa per “i giovani”: farete bene per loro, per il servizio pubblico della giustizia, per il Paese.